LA PITTURA COME TESTIMONIANZA DI CONOSCENZA
Nelle opere di Matsuyama si annunzia ogni volta una specie di resurrezione laidamente sacra: l’ordine superiore a cui la pittura sembra richiamarsi è suggerito da una ricerca che ha tratti di disperazione generale, simboli di un’epoca tragica. La ripetizione di alcune tematiche formali o l’accostamento di problemi o eventi testimoniano un ideale di pura ricerca: ogni opera è un affinamento logico, perfezionamento e avvicinamento ad una meta ideale: gli azzurri chiari, i grigi bianchi, la linea marrone di un orizzonte che è anche grido e ferita oppure gruppi di opere allineate in sequenza, tutti sono momenti di una ricerca lirica che la mente suggerisce come constatazione di una linea – vita disastrosa, che non vuole ricercare la purezza di Fontana, intenzionalmente, ma l’impurezza di eventi ugualmente sofferti sulla tela e nella vita. Un vissuto fatto di antichità e di contemporaneità. Ogni traccia è un fiume, un incanto che nasce dal nulla e al nulla ritorna, e crea attesa: in questo senso questa è un arte che torna a farsi segnale e simbolo: simbolo di angoscia vissuta, screpolature che giungono da paesi inesistenti e che invocano ritmi interni (che fanno parte del tempo) con simmetrie e strutture e abrasioni (che fanno parte dello spazio). La prospettiva non conta più: la profondità è quella del pensiero che crea e interpreta (e investe artista e lettore) e non quella dello spazio. Gli ON sono preannunziati dalla mente e il tipo di SHIN è un commento idealmente sonoro che segue l’interpretazione e la partecipazione. Io “entro nella tela e so farmi incantante” : la tonalità nasce con me.
L’artista giapponese si differenzia per ritmo, mistero, fascino, il suo spazio cambia il suo rapporto con l’uomo, il piano si incrina, apre prospettive diverse: la ferita inferta al foglio è un evento di materia che acquista un ruolo che lo porta a riflettersi e a replicarsi, la materia può farsi progetto, tecnica e bassorilievo, anche spazio e poesia. Lo spazio dipinto è esperienza totale: l’uomo è quello spazio, che comunica recuperando ciò che tenterebbe di rimanere fuori dallo spazio (pudore, violenza, dramma eterno dell’uomo). Sono la linea e lo squarcio che alimentano un piano che giungerà ai sensi tattili e visivi: il suono che ne nasce, accarezzando la tavola, è tutto fatto di silenzio. Su legno può nascere la musica delle proporzioni (diceva Longhi parlando delle tele di Piero della Francesca) e la forma può divenire musica e addirittura negare quello spazio occupandolo. Studiando le opere di Matsuyama vi accorgiamo che lo spazio del quattrocento è il suo hanno una prospettiva che è illusoria con un duplice significato: una pala d’altare o un taglio macerato raccontano una struttura che è comune, un identico fondale che è racconto di una constatazione, divina o no.

Lo spazio è quello donato dall’artista a chi guarda: i gesti si identificano con quelli di tutti i tempi: sarà il lettore a collocarli in un tempo storico. Il racconto grafico di Matsuyama consente di farsi leggere in un attimo, quasi simultaneamente al nascere su legno del segno grafico: come la discesa di una parola sulla pagina del poeta la pone fuori tempo nell’attimo in cui la intercala ad altre parole (come in Ungaretti il termine “cuore” quando si pone tra “ma nel” e “nessuna croce manca” oppure “pronto” s’interpone tra “così” e “di cuore” nel verso di Quasimodo) : un segno o una parola trovano il loro tempo quando si inseriscono nella struttura dell’insieme. Nel cubismo spazio e tempo s’identificarono nell’attimo del loro comporsi. L’attimo diventava l’opera, pronto a creare un continuum: uno spazio che si temporalizza e un tempo che si spazialisma. E’ il miracolo dell’artista giapponese che si spinge ad entrare nei meandri della sua finzione lirica: la trama del suo tessuto tende, sì, a farsi musica che è conoscenza di un disincanto comune, una musica fisicamente inascoltabile ma in verticale ascesa di purezza segnica e coloristica, uno stato d’animo nutrito di velature marine, di grumi culturali che chiamano a giudizio gli dei del momento in cui si pongono come testimoni della non felicità della vita. Incisioni, note, tratteggi fini come capelli, qua e là più o meno infittiti, grumi trasparenti nelle velature colorate, forse tutte carte da musica in attesa drammatica delle note.

L’artista giapponese è sempre, quando lavora, in attesa delle sue vibrazioni. L’arte in lui vive, e “non muore” come il Dio di Nietzsche. Persino la tradizione vera è per sua natura sempre contemporanea quando vi soffia dentro la filosofia di un’ epoca e a quell’epoca la si riporta. Nulla cambia dalle origini: paura e orrori rimangono vivi dentro, con nuove tecniche e materie che testimoniano il presente. L’esecuzione di un evento è un brano di storia esistenziale personale che si rende universale. Come accade al nostro Matsuyama quando ci conduce nel suo inferno e ci costringe a porci in questo contatto quando si avverte la purezza e l’inesorabilità del dipinto. Non concede vie di mezzo: o il rifiuto o la compartecipazione.
L’artista è sempre contemporaneo. Sono ormai cent’anni (dalle “Avanguardie storiche”) che le immagini hanno cessato di porsi come un riflesso della “realtà”: l’ordine incantevole di Matisse fu un messaggio estremo, poi le patologie creative travolsero lo specchio fedele della natura. Nasceva un altro mondo. La sua musica? Un valore aggiunto che si unisce alla poesia del segno e del colore. Sulle sue tavole – che non hanno un titolo perché il tema è drammaticamente unico – nasce una specie di lirica disperazione che lui chiama “vibrazione musicale” ma che è la favola di una cultura aerea che in occidente è appena percepibile, e che indica un altrove possibile, un aldilà che può essere ancora auspicato.

La coerenza permanente sulle tavole anche senza l’ipotesi musicale: dovremo goderle anche senza riferimenti sonori, perché sono opere definitive ma anche di attesa, sospese a un nulla che è orientale solo come estasi. Qui c’è la pittura, dietro la frantumazione di Matsuyama c’è tutto l’occidente e tutto l’oriente filtrati da una comune matrice culturale che riguarda l’uomo e che crea situazioni di stupore e di identificazione, con le corrispondenze interne che riconducono a un centro filtrante l’invenzione e l’esercizio del vivere il mondo. Come accade al poeta: tutta l’arte di oggi si ricollega a un ordine che non vediamo ma sappiamo che esiste: la geometria del mondo di cui Matsuyama fa parte. Una geometria di conoscenza ( ha ragione Pontiggia) che ripropone nei dipinti la patologia del mondo. Le corrosioni della materia non consentono esultanze cromatiche perché sono affini al concetto delle anime. Sì, è un’ arte che avvicina al microcosmo (come dice l’artista) in quanto storia di ciascuno, e la sua linea tracciata sulla carta di riso suoni pure il suo bosco, i suoi dei, la sua fede, il suo profondo, le sue labbra: sarà l’intelligenza più che l’orecchio a udire la sua amara melodia. La sua testimonianza.

di Dino Carlesi