SHUHEI MATSUYAMA: PITTURA COME FILOSOFIA, FILOSOFIA COME PITTURA.
Gli estremi si toccano. Sei secoli prima di Cristo, un filosofo greco, Pitagora di Samo, ebbe l’intuizione che tutto in natura è numero.
Principio di tutte le cose è l’unità; dall’’unità nasce la dualità infinita che soggiace all’unità come la materia alla causa;dall’ unità e dalla dualità infinita vengono i numeri e dai numeri i punti, e da questi le linee, e da queste le figure piane, da cui vengono le figure solide e i corpi…L’embrione prende forma in quaranta giorni; il bambino viene alla luce in sette mesi,o in nove o al massimo in dieci, secondo le leggi dell’armonia… Ciascuna parte si inserisce nel tutto al momento giusto, secondo le leggi dell’armonia.” (Diogene Laerzio).

Ma se tutto è numero, tutto è ritmo, e quindi tutto è musica. Coerentemente, Pitagora pensava che le stelle si muovessero nello spazio siderale suscitando un suono armonioso, e che il firmamento risuonasse di musiche.

Gli estremi si toccano, dicevamo. Anche nella tradizione indiana la musica è il linguaggio originario, il linguaggio degli dei. Come nella tradizione cristiana “ in principio era il Verbo”, per la tradizione indiana “in principio era il canto”.
Gli estremi si toccano, ripetiamo. All’inizio del secolo il pittore russo Wassily Kandinsky intuisce che esiste una relazione, anzi un’equivalenza fra pittura e musica. Il colore è un suono interiore.

E oggi, mentre il secolo si chiude, siamo qui a visitare la mostra di un artista giapponese (ma ormai italiano, e milanese, d’adozione) Shuhei Matsuyama, che nelle sue opere dipinge lo shin-on, il suono delle cose. Il suono di tutte le cose. Il suono che è l’origine e insieme la rappresentazione di tutte le cose.

Tradizione orientale e occidentale, avanguardie di inizio secolo e esperienze di fine millennio sembrano dunque portare a una convergenza. Convergenza, sia chiaro, non significa identità, semmai il suo contrario: non avrebbe senso sottolineare lo stesso punto di arrivo, se i punti di partenza non fossero diversi.

Può sembrare pretestuoso muovere dai massimi sistemi, scomodare Superi e Acheronta per parlare di pittura. Ma in questo caso è necessario. Perché l’opera di Matsuyaina si nutre di filosofia: di una filosofia, appunto, alta, che tiene conto dello zen e delle grandi religioni orientali, ma trova inaspettati riscontri anche nel nostro pensiero. E nel nostro pensiero artistico.

Detto questo,occorre anche dire che, se Matsuyama parte da un’intuizione filosofica (la riducibilità di tutte le cose a una realtà ultima, che è appunto il suono, per cui la pittura non deve disperdersi nella rappresentazione delle singole apparenze, ma deve rappresentare la loro anima, cioè quella musica che le origina e le esprime) la sua opera non si riduce a filosofia.

Ma come? Non abbiamo appena detto che guardando un lavoro di Matsuyama occorre tener presente gli orizzonti filosofici in cui si colloca,per capire che non siamo di fronte a un esercizio sensibilistico, formale, stilistico, ma a un’esperienza sapienziale? E’vero. Lo scopo di Matsuyama non è la pittura, è la conoscenza. La sua pittura non esisterebbe se fosse solo un problema di tavolozza, di pigmenti e di pennelli. Per lui la pittura non è mai una questione di pittura.

Ma proprio perché il linguaggio è destinato a esprimere un significato profondo, bisogna che questo linguaggio (il linguaggio pittorico) sia il più possibile nitido, intenso, consapevole.

Ecco quindi che nelle opere dell’artista giapponese vediamo che il supporto (carta di riso, tavola di legno, tela, gesso o vetro che sia) è scelto con cura, in modo che sappia esaltare il valore luminoso della composizione.
Anche la pennellata è data con sapienza: il colore si struttura come materia-colore, sovrapposizione di strati pittorici che si intensificano nel centro (nel baricentro) della composizione e lì conoscono convulsioni, ondulazioni, corrugamenti, screpolature, cicatrici. Perché è lì che il suono diventa più profondo, ma anche perché lì convergono gli sguardi.

Ancora, lo spazio è suddiviso armonicamente, obbedendo a una simmetria ideale, oppure a una sezione aurea calcolata non col compasso, ma col cuore.

Anche la predilezione per certi colori non è casuale. I colori di Matsuyama non sono mai immediatamente sgargianti, timbricamente alti, decorativi. Sono colori mentali, introversi, tacitamente commossi: colori che non squillano e non gridano, ma parlano attraverso il silenzio.

Le gamme degli azzurri (quell’azzurro che,per Cézanne, è il “colore della lontananza”); i repertori dei verdi iridescenti e acquosi; le variazioni sui bianchi di gesso e di madreperla; il catalogo dei neri enigmatici e malinconici; la fenomenologia dei rosa aurorali e minerali testimoniano che il colore non è sentito come aggiunta o come ornamento, ma come sostanza. Come sostanza spirituale.

E infine la linea. Matsuyama è pittore della linea. Tutti i suoi quadri nascono da una linea originaria che agisce come un taglio, nella superficie intatta dell’opera. La lezione di Fontana non è passata invano. Ma oltre a questa linea, che può essere centrale, impennarsi verso l’alto o precipitare verso il fondo del quadro, è la pennellata stessa, ogni pennellata, che si struttura come una linea, in modo da trasformare il tessuto dell’opera in una trama fitta e delicata di elementi segnici.

Si potrebbe dunque collocare l’opera di Matsuyama nell’ambito di quella “pittura analitica” (o “pitturapittura”) che a Milano ha avuto uno dei suoi centri, a partire dagli anni Settanta: una pittura,cioè,che vuole soprattutto affinare gli strumenti pittorici.

Per Matsuyama, lo abbiamo detto,le motivazioni artistiche sono diverse. Ma è comunque attraverso l’approfondimento degli strumenti della pittura,attraverso uno studio calmo e incontentabile,condotto al di fuori dei riflettori (come usa dire oggi) e davanti allo scrutinio della propria coscienza (come oggi non usa dire più) che l’artista giapponese giunge al significato. E alla bellezza.

Per lui vale l’espressione di Nietzsche, che parlava del “lento dardo della bellezza”. Ma una freccia non dovrebbe essere veloce? Nella realtà, certo. Ma nella realtà dell’arte,quello che piace immediatamente stanca presto. Mentre quello che ci raggiunge lentamente, perché richiede meditazione e sensibilità, lascia un segno che non si rimargina. E non si dimentica più.

Elena Pontiggia